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mercoledì 7 maggio 2014

L'incubo dello scrittore: il refuso

Qual è l'incubo dello scrittore, la paura che più gli impedisce di svolgere serenamente il proprio lavoro? Cercando di dare una risposta a questa domanda mi sono reso conto che in realtà le risposte possono essere molteplici, ogni scrittore ha le sue piccole o grandi fobie. ;-)
Ne elencherò alcune, in ordine casuale; poi magari ciascuno potrà fare la propria classifica personale o magari segnalarmene altre.


Il primo incubo di ogni scrittore (o in generale di chi si occupa di comunicazione scritta) è certamente il refuso, termine di derivazione tipografica che indica un errore di stampa, una  o più lettere aggiunte o dimenticate oppure inserite nel modo sbagliato. Un errore che capita a tutti, anche agli autori più affermati, dovuto alla fretta di scrivere o a una rilettura poco accurata (o a tanti altri fattori imprevedibili) e ormai entrato nel linguaggio comune per indicare ogni generico errore di scrittura.

Attenti ai correttori ortografici
Con l'arrivo dei primi sistemi di videoscrittura dotati di correttore ortografico, questo problema sembrava destinato pian piano a estinguersi.
Nella realtà, invece, i refusi non accennano a scomparire; paradossalmente anche a causa della troppa fiducia che a volte riponiamo in questi strumenti, certamente utili, ma non sempre capaci di segnalare tutti gli errori.
Il correttore si limita in genere a segnalare le parole non presenti nel proprio dizionario, considerandole a torto errate oppure promuovendo parole esistenti, ma usate in maniera impropria.
Per non parlare di quando, inebriati dalla possibilità di sostituire in un colpo solo le occorrenze errate di una certa parola, ricorriamo alla funzione di sostituzione automatica in maniera imprudente, generando danni spesso irreparabili.
L'uso del correttore automatico andrebbe limitato all'individuazione dei soli errori di battitura (i refusi in senso stretto) causati dall'omissione o aggiunta di alcune lettere o dalla loro inversione di posizione all'interno di una parola.

Gli errori tipici
Spesso tendiamo a ripetere gli stessi errori di battitura, soprattutto quando scriviamo velocemente le dita vagano in maniera automatica sulla tastiera lasciando una scia di refusi, di errori che compaiono con maggiore frequenza magari per un'errata posizione delle mani sulla tastiera. Differenti da persona a persona, a volte diversi a seconda del testo che stiamo scrivendo: un romanzo, un articolo o altro.
Il modo migliore per individuarli è scrivere velocemente un brano, senza guardare la tastiera e fare correzioni, meglio se sotto dettatura o ricopiando un testo scritto. Seguire la scia delle parole senza pensare troppo agli eventuali errori.
Poi rileggere il testo con attenzione, segnandosi quelli che compaiono più volte. Se il termine errato compare spesso e la parola è presente frequentemente all'interno del testo da digitare, può essere utile ricorrere alla funzione di correzione automatica, che sostituisce il termine corretto durante la digitazione. Bastano solo pochi minuti per programmare la nostra lista di errori tipici, tutto tempo guadagnato nella successiva fase di revisione.
Un modo anche per conoscere meglio i nostri limiti e non sentirci onnipotenti, difetto spesso frequente negli scrittori esordienti che spesso tendono a trascurare il controllo manuale del testo o a delegarlo alla macchina.
Per ora meglio affidarsi ancora a un lettore "umano", possibilmente diverso dall'autore, portato per natura a individuare gli errori altrui, ma non i propri.
Un meccanismo inconscio che ci porta a non vedere realmente la frase scritta sul monitor o su carta quanto piuttosto una nostra elaborazione mentale, quello che noi vorremmo scrivere piuttosto che quel che compare realmente sul monitor o sul foglio.

Tutti linguisti!
Un po' più complesso il discorso relativo agli errori grammaticali e sintattici, non sempre dovuti  a una scarsa conoscenza della nostra complessa lingua.
Forse anche a voi sarà capitato di scrivere frettolosamente "qual è" con l'apostrofo o "po'" con l'accento, pur conoscendo le regole grammaticali sottese a queste eccezioni, purtroppo abbastanza frequenti nella nostra lingua.
Oppure sentirsi correggere qualche "d eufonica" dal pedante di turno, convinto paladino della lingua italiana, desideroso di debellare l'ignoranza altrui con l'entusiasmo e il rigore dei neofiti.
Negli ultimi anni si sono moltiplicate le pagine dedicate ai rudimenti della lingua italiana il che da un lato evidenzia la necessità di supplire a dubbi o addirittura carenze oggettive, dall'altro mostra una preoccupante tendenza a schematizzare tutto in una lista di regolette (non sempre corrette) diffuse a volte con il copiaincolla, senza comprenderne le ragioni.
Nonostante i linguisti continuino a ripetere che non esistono regole certe e che ogni lingua si evolve e trasforma negli anni, troviamo purtroppo anche chi cerca di imporre la propria visione, trasformando in dogmi quei pochi concetti appresi frettolosamente da qualche schema riepilogativo trovato in rete.
Tabelle utili, se servono solo a tenere a mente gli errori più frequenti, ma deleterie se usate per discriminare chi ha una formazione culturale diversa, considerando errore tutto ciò che non rientra nei propri schemi e ignorante chiunque utilizzi termini considerati ormai fuori moda.

La spinosa questione delle "d"  eufoniche
Un esempio emblematico di questa tendenza alla semplificazione è la questione delle cosiddette "d eufoniche", un problema forse marginale, contro cui si è sviluppata negli ultimi anni una vera campagna discriminatoria sulla Rete, con dibattiti dai toni spesso molto accesi.
Basterebbe leggere qualche testo più datato, per ritrovare negli scritti dei maggiori autori molti esempi della presenza di questi elementi che hanno sempre fatto parte a pieno titolo della lingua italiana. Almeno fino a che qualche zelante editor o innovativa casa editrice ha preferito abolirle per ragioni ignote trasformando quello che un tempo era ritenuto segno di ricercatezza stilistica in un imperdonabile errore.
Alcuni sostengono che siano ormai inutili e risultino indigeste ai lettori moderni, ma di fatto finora ho sentito solo giustificazioni piuttosto labili.
Perfino la soluzione "salomonica" adottata dall'autorevole Accademia della Crusca, che limita l'uso della "d" ai soli casi di incontro di vocali uguali, mi sembra solo un compromesso poco soddisfacente; infatti appena enunciata la regola generale, subito si contraddice con una serie di eccezioni non eliminabili perché ormai entrate nell'uso comune e difficilmente sostituibili.
A quel punto tanto valeva lasciare libertà d'uso, accontentando sia "i nostalgici" sia le nuove generazioni che non ne vedono più l'utilità pratica.
In attesa che il tempo ne decretieventualmente l'estinzione definitiva.
Personalmente le usavo (e a volte le uso ancora) e qualche volta ho anche dovuto subire delle critiche immotivate. Dopo aver cercato vanamente di spiegare che non sono un errore mi sono dovuto anch'io rassegnare all'uso comune, rinunciando a combattere contro i mulini a vento e a impelagarmi in dibattiti linguistici probabilmente di scarsa importanza.
Con il disagio comunque di dover accettare una soluzione "imposta" senza motivo, sperando che un giorno non ci costringano anche a ritenere normale scrivere "xché" o mettere le "k" dappertutto.
Non so se sia un'evoluzione per la nostra lingua, di certo è una piccola sconfitta per la nostra libertà di espressione.

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