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domenica 22 maggio 2022

Come accogliere i bambini in fuga dalle guerre - webinar con Paola Milani

Qualche settimana fa ho seguito online il primo webinar del ciclo intitolato «Ci sono cose da fare… per esempio la PACE» organizzati dalla casa editrice «La Meridiana» diretta da Elvira Zaccagnino per offrire una voce diversa rispetto alle cronache di guerra che dominano i mass media, incontri dedicati alla pace che vogliono suggerire una diversa chiave di lettura della guerra in Ucraina.
Una chiacchierata con la pedagogista Paola Milani per riflettere e interrogarsi sul tema «Come accogliere i bambini e le bambine in fuga dalle guerre», per cercare di capire insieme come comportarsi e soprattutto gli errori da evitare, ; una discussione che è nata dopo l'invasione dell'Ucraina, ma contiene consigli utili per accogliere al meglio tutti i profughi di guerra, di tutte le guerre.
Mi è sembrato opportuno farne un resoconto, che ho già pubblicato sul settimanale «La voce del paese» di Gioia del Colle e ora, con ritardo, riporto anche qui, perché ne resti traccia anche in rete. Ringrazio Paola Milani per le sue utili riflessioni ed Elvira Zaccagnino per aver organizzato questi utili incontri.





Si è tenuto il 29 marzo 2022 un interessante webinar con Paola Milani, pedagogista dell'Università di Padova, responsabile scientifica del progetto P.I.P.P.I. (Programma di Intervento per la Prevenzione dell'Istituzionalizzazione) che cerca di trasformare le più strampalate situazioni di vita in possibilità di crescita sufficientemente buona, partendo dalle risorse incredibili che ciascun bambino ha, proprio come Pippi Calzelunghe, personaggio letterario reso noto in Italia da una serie televisiva che ha formato la nostra generazione a una visione alternativa della realtà.

Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno, né di notte,
né per mare, né per terra,
per esempio la guerra»,
Elvira Zaccagnino ha esordito con un «promemoria» di Gianni Rodari, autore che questa guerra ha riportato in auge. Una frase che da anni campeggia in un angolo del mio blog «Fogli diversi» per ribadire il NO a tutte le guerre e a ogni forma di violenza.
«Poi accade che la guerra qualcuno la fa davvero», riprende la direttrice della casa editrice «La Meridiana», da oltre trent'anni attiva sul tema della Pace e della Nonviolenza, e tante persone, in gran parte donne e bambini sono costrette a lasciare il loro paese.

Sono Bambini


foto Paola MIlani
Paola Milani
Paola Milani in questo incontro ha cercato di indicarci come accoglierli al meglio, senza false illusioni, ricordando quello che hanno vissuto, intercettando il nostro bisogno di risposte in un momento di grande confusione. Negli ultimi anni nel mondo ci sono stati tanti conflitti, spesso ignorati dai mezzi d'informazione, ma questa guerra forse la sentiamo più vicina a noi, ne stiamo avvertendo gli effetti nella quotidianità. Cosa possiamo fare noi adulti in questo momento? Nel corso dell'incontro Paola Milani ha provato a condividere le sue riflessioni, senza pretendere di fornire delle risposte esaustive, a dare delle indicazioni, degli orientamenti operativi, una sorta di vademecum, pubblicato anche sulla sua pagina facebook, su come accogliere i bambini provenienti dall'Ucraina, che man mano si arricchisce grazie ai commenti dei lettori.
Non immaginavamo potesse accadere ancora, non immaginavamo che a un certo punto ritornassero le vecchie logiche della guerra di occupazione, di dover parlare di uccisioni, di massacri, di distruzione, di famiglie e bambini costretti a fuggire e uomini costretti a rimanere al fronte per difendere la loro terra. Oggi il nostro dovere è accogliere le persone più fragili, più vulnerabili; proviamo a non sbagliare nella costruzione della pace e a cercare insieme delle risposte, di immaginare dei percorsi su come accogliere nel modo migliore i bambini che fuggono dalla guerra.
Paola ha premesso di non poter dare risposte che evidentemente non abbiamo, perché la situazione era non immaginabile e ci sta mettendo tutti in grande difficoltà. Ha poi ribadito una cosa che dovrebbe essere ovvia, ma tanti stanno dimenticando. Prima di tutto dobbiamo «ricordare che sono bambini» prima di essere profughi, vittime di questa guerra. Sono bambini e noi adulti siamo sempre un po' in difficoltà a comunicare con loro, facciamo fatica ad ascoltare la loro voce; delle volte diciamo che sono troppo piccoli per poter parlare, per poterci capire. Facciamo fatica a entrare nel loro mondo quindi ce li rappresentiamo solo come «infans» (senza parola), come minori, come se fossero minori di qualcosa. Sono persone, sono bambini, minorenni di età, ma non minori in niente, persone che stanno vivendo l'esperienza traumatica della guerra e della fuga dal loro paese, dell'arrivo in paesi diversi, ma comunque prima di tutto sono dei bambini, con i bisogni tipici dell'età evolutiva, delle diverse età e con le risorse dei bambini. 

Il potere di un abbraccio

Paola ha messo online nei giorni scorsi la foto di una bambina ucraina accolta in una scuola italiana. La mamma e le insegnanti erano preoccupate di come inserirla, di come avviare la sua esperienza scolastica in Italia senza traumi. Dopo tre secondi questa bambina era in braccio alla maestra, che era già felice di averla tra le sue braccia. Senza parole si era già realizzato un incontro. Questa è la potenza dell'educazione quando diamo spazio ai bambini di portarci e di far esprimere le loro risorse. Per bambini intendiamo da 0 a 18 anni quindi un arco molto lungo che copre anche l'adolescenza e la primissima infanzia, autori della loro storia di vita che possono adesso riscrivere insieme a noi.
In queste settimane è subito partita la macchina dell'accoglienza, della solidarietà, a volte anche in maniera non organizzata, in maniera anche personale da parte di associazioni o di singoli che si sono mossi per portare beni di prima necessità e portare in Italia i profughi, famiglie, donne e bambini con molta generosità. 
Paola ha voluto subito chiarire una cosa fondamentale, un errore nel quale possiamo cadere per inesperienza o ignoranza delle leggi internazionali. La maggior parte dei bambini che arrivano sono orfani, ma lì il sistema funziona diversamente. Nell'Est europeo non esiste l'affido familiare. Agli inizi di questa gara di solidarietà qualcuno si è fatto qualche illusione per cui è importante fare una precisazione importante riguardo l'accoglienza in questa situazione di emergenza, ribadire cos'è che rende diverso lo statuto dell'affido da loro a noi, per non illuderci reciprocamente.
In Occidente, ma in Italia in modo particolare dagli anni sessanta abbiamo vissuto la bella storia della deistituzionalizzazione, una storia peculiare che il nostro paese ha vissuto in maniera più forte e diversa da altri paesi vicini come Francia, Germania, Inghilterra, etc. Franco Basaglia ha intuito che la persona si può ammalare anche per mancanza di relazioni e che quindi la cura data alle persone fuori da un contesto di relazioni, che riconosce la singolarità della persona e la singolarità dei bisogni di ogni persona umana non cura, ma piuttosto crea nuova patologia e da lì abbiamo iniziato questa storia straordinaria della deistituzionalizzazione. Nel 2006 grazie alla legge 149 abbiamo chiuso gli orfanotrofi e tutti gli ospedali psichiatrici. Nel 1978 con la riforma Basaglia abbiamo chiuso le grandi case di riposo dove gli anziani dormivano in cameroni e le abbiamo convertite in RSA e in appartamenti per l'autonomia e tutti i grandi istituti per i disabili riorganizzando l'ospitalità di queste persone, seguendo il principio della personalizzazione. Ogni famiglia, ogni bambino, ogni disabile, ogni persona che soffre di salute mentale ha bisogno di un percorso e di un contesto di cura personalizzato.

L'affido in Ucraina funziona diversamente

Questo processo nell'Est europeo sta conoscendo delle tappe completamente diverse e per alcuni versi è rimasta molto indietro rispetto a noi. Nel corso di questa guerra abbiamo cominciato a sentire parole come «orfanotrofio», che non sentivamo più da tanto tempo. Sono arrivati da noi bambini che venivano evacuati dagli orfanotrofi che sono proprio quei vecchi istituti come c'erano da noi fino agli anni '70 in cui sono ospitati degli orfani, ma anche bambini che per diverse ragioni non possono stare nelle loro famiglie. L'affido familiare non esiste o è poco utilizzato per cui possono esserci in questi orfanotrofi bambini che hanno un solo genitore o che hanno entrambi i genitori, ma che non sono in grado di occuparsi di loro, bambini che hanno subito storie di violenza nelle loro famiglie e ne sono stati allontanati, bambini con disabilità che i genitori non possono accudire a casa. Dietro la parola orfanotrofio si nasconde una costellazione di situazioni diverse e solo in rarissimi casi i bambini hanno lo status di adottabili. Ingenuamente molti pensano che siano tutti orfani e quindi adottabili, ma in realtà non vale questa equivalenza.
Qualche settimana fa è uscito un documento di Unicef e Unhcr, e anche un documento dei magistrati minorili, che stabilisce che in tempo di guerra si sospendono le adozioni perché l'adozione è un processo definitivo che riguarda l'affiliazione di un bambino a una nuova famiglia e non si fa in fretta in emergenza senza avere contezza completa di quale sia la situazione del bambino. Un grosso problema è che non tutti i bambini che arrivano hanno i documenti e non conosciamo bene la loro storia per cui non si possono fare scelte definitive come l'adozione. Un secondo aspetto è che l'Italia nel 1991 ha ratificato la convenzione internazionale dei diritti dei bambini dell'ottantanove, come quasi tutti i paesi europei, e uno dei diritti fondamentali è proprio il diritto alla protezione dei bambini, inserito in una logica di personalizzazione che evidentemente, nella logica degli orfanotrofi che ancora esiste in Ucraina, non è così importante come da noi. Anche i rappresentanti delle comunità ucraine, in un'audizione nella commissione bicamerale dell'infanzia in parlamento hanno detto «questi sono i nostri bambini, noi non li mettiamo nelle vostre famiglie», ma noi non possiamo ricreare gli orfanotrofi qui, adesso siamo tenuti al rispetto dei diritti dei bambini e abbiamo una storia di deistituzionalizzazione che è importante rispettare.

Solidarietà pronta e continuità dei legami

Elvira Zaccagnino
Elvira Zaccagnino

Elvira ha messo in evidenza che rispetto ad altri conflitti questa volta ci siamo subito ritrovati solidali. In passato finita l'onda dell'emotività abbiamo sbagliato su qualcosa, abbiamo lasciato, abbiamo fatto aumentare le fragilità e le situazioni di insicurezza. Questa volta sente che abbiamo veramente il compito di indirizzare il tutto su una strada giusta quindi è fondamentale fare chiarezza su come i sistemi funzionano in maniera diversa e occorre trovare un equilibrio tra i diversi modi di tutelare i bambini nei due paesi per evitare che i bambini vengano ulteriormente penalizzati.
Dobbiamo imparare a non sbagliare. Ricordare che se i loro genitori sono ancora presenti nella loro vita sarà importante capire come e in che misura mantenere i contatti, cosa difficilissima in una situazione di guerra.
Paola Milani ha ribadito il diritto a una accoglienza personalizzata, intesa anche come una protezione dei legami e quindi come un diritto alla continuità dei legami, tenendo conto delle varie realtà. Ci sono bambini che arrivano dal porto, bambini che provengono dagli orfanotrofi, poi ci sono i bambini che arrivano con le loro mezze famiglie, solitamente con le mamme o con persone di riferimento per poi transitare e ricongiungersi con parti della loro famiglia che sono già qui. Ci sono poi i bambini che arrivano proprio soli, che rientrano nella vasta categoria dei cosiddetti «minori non accompagnati».
Il principio della continuità dei legami va rispettato per ognuno di loro. Da un lato la guerra può rendere tutto difficile, basta che salti un antenna in una località e non si riesce più ad avere il contatto telefonico, dall'altro per ora la salvezza viene da internet, da whatsapp che permette di parlare anche con i soldati al fronte, quindi con tanti padri che sono dovuti restare per combattere, lasciando sole le loro famiglie..
La cosa difficile è capire bene la situazione di ogni bambino. Non c'è una soluzione che vada bene per tutti, ad ogni bambino va garantita una valutazione personalizzata, capire di cosa ha bisogno, che risorse ha, quali sono i suoi legami e come garantire per lui la continuità di questi legami. Tutto questo senza avere una dimensione temporale, senza sapere quanto tempo si dovranno fermare,
In questa fase occorre escludere l'adozione, che caso mai potrà venire più avanti se ci sarà qualche bambino che resta orfano, e affidarsi alle opportunità offerte dall'affido familiare, tenendo conto della situazione di partenza. I bambini abituati a stare insieme in orfanotrofio non possono essere mandati da soli in una famiglia, in una situazione nuova e strana, un'altra lingua, un'altra cultura, altre abitudini, altro clima, altri suoni, altri colori, altri ambienti. Occorre un lento lavoro di ampliamento dei legami, per esempio ponendo il bambino in contatto con una famiglia solidale per qualche giorno, per esempio la domenica a pranzo, lasciando che negli altri giorni viva con il gruppo del suo contesto di provenienza, con i suoi educatori. Un modo per garantire i loro legami e al tempo stesso permettere di conoscere nuovi mondi, attraverso un metodo non standardizzata, uguale per tutti, avendo la possibilità veramente di modularsi sul progetto di ogni bambino, concordando gli interventi con i rappresentanti della comunità ucraina. Non dobbiamo dimenticare che questi bambini sono bambini ucraini che hanno le loro abitudini, i loro legami, ma è anche nostro dovere aggiungere occasioni di crescita, di sviluppo, di relazioni fraterne e accoglienti. Molti bambini sono già stati inseriti in contesti scolastici.

Accoglienza, non appropriazione

Paola, parlando dell'accoglienza nelle famiglie affidatarie, sottolinea la differenza fra «accoglienza» e «appropriazione»; non dobbiamo mai dimenticare che questi sono bambini che vengono da un altra cultura, da altri suoni ed altri colori. Dobbiamo imparare ad accogliere i loro suoni, i loro colori, creare anche una zona cuscinetto di comfort nella quale loro possano non sentirsi depredati, collocati nella nostra modalità di di vita. L'uso del termine appropriazione, in apparenza molto forte parlando di affido familiare, indica una pratica con la quale spesso gli adulti, ma in generale la cultura occidentale immagina l'incontro con l'altro, anche con i bambini. L'insistenza della comunità ucraina nel sottolineare «sono i nostri bambini» nasce probabilmente da atteggiamenti sbagliati che noi a volte negli anni abbiamo avuto nei confronti dei bambini di Chernobyl accolti nel nostro paese. D'altro canto il prezioso lavoro delle associazioni di solidarietà ha permesso questo rapporto di fratellanza tra i due paesi da cui è nata tutta questa solidarietà verso l'Ucraina.
Maria Montessori già un secolo fa aveva chiarito la differenza affermando che «neanche i genitori biologici sono i proprietari dei bambini. Ne sono solo i custodi». Dichiarazione fatta in un periodo in cui la legge parlava ancora di «potestà genitoriale». Oggi invece parliamo di «responsabilità genitoriale»; un adulto non è mai padrone, proprietario di un bambino. Il bambino è una persona, non è un oggetto, non può esserci un rapporto di possesso nei confronti di un bambino neanche da parte della mamma biologica, del genitore biologico. Un concetto che dovremmo comprendere meglio in questa fase emergenziale è che noi siamo chiamati a garantire una custodia provvisoria di questi bambini e a farlo il più possibile nel rispetto di alcuni principi che l'Occidente si è dato, che riguardano proprio i diritti dei bambini in un momento storico in cui si sta avviando la «Child Guarantee» europea. L'Europa ha detto a tutti i paesi che bisogna mettersi a lavorare seriamente sui diritti dei bambini perché ne parliamo da anni, ma li dobbiamo finalmente attuare.
Il primo diritto di un bambino è di essere amato, il diritto al riconoscimento, il diritto ad essere amato per quello che è, nella sua identità, nella sua singolarità, non perché assomiglia alla mamma o assomiglia al papà, perché risponde alle aspettative del nonno, etc., ma per quello che è, non per quello che fa, per i voti che porta a casa, etc.

Cos'è l'amore ?

Paola ha ammesso che nel mondo dei servizi, nel mondo dell'educazione, a volte si è fatta un po' di confusione dicendo che i bambini non vanno amati, sono i genitori che li devono amare. È passata l'idea che sia meglio meglio metterli in istituto, l'orfanotrofio oppure nel nostro contesto in comunità, perché c'è più distanza se no la famiglia affidataria si affeziona.
Occorre chiarire cosa sia questo amore. I Greci avevano tante parole per dire l'amore, per esempio distinguevano tra «eros» e «agape», con passione il «pathos», perché sono tutti concetti diversi; allora l'amore inteso come fratellanza, come cura dell'altro è un amore che è coerente con la mission professionale dei servizi per le famiglie affidatarie, degli educatori che vivono in comunità. Non si può condividere la quotidianità senza voler bene ai bambini, però questo deve essere un voler bene che non si appropria dei bambini, che non li lega in legami paradossali di ingiunzioni, che legano il bambino rispetto ai bisogni dell'adulto, ma deve essere un legame che libera il potenziale del bambino. Questo non è facile, lo sappiamo, ma i bambini in affido possono essere amati e vanno lasciati liberi come va lasciato libero qualunque figlio di crescere e di uscire dalla famiglia. In questo momento questi bambini hanno bisogno proprio di una sosta momentanea all'interno di un contesto affettivo solido che è tanto più solido quanto più lascia andare il bambino, non ci si impossessa, si garantisce la risposta ai suoi bisogni senza che il bambino debba rispondere ai bisogni dell'adulto. Questa è la maturità che dobbiamo avere in questo momento, garantendo sostegni alle famiglie affidatarie, luoghi di dialogo su queste cose e qualcuno con cui confrontarsi e fare questa esperienza di legami che generano solidarietà e non generano meccanismi che appropriazione.
Elvira ha aggiunto che si è creata una rete di famiglie che hanno dato la disponibilità ad accogliere bambini o nuclei familiari spezzati, solitamente mamme con bambini o zie, nonne con bambini. Mancano le figure paterne, rimaste in Ucraina per combattere. C'è un'accoglienza non soltanto nei confronti del minore, ma nei confronti di quel nucleo familiare, nel rispetto del genitore presente che è garante di un legame con quel bambino. I nuclei spezzati hanno una composizione variabile: mamma con bambino, mamma con più bambini, mamma con bambini adolescenti, che necessitano un altro tipo di attenzione, a volte anche mamme minorenni con bambini piccoli o piccoli gruppi di donne che si organizzano per venire in Italia tutte insieme. Il contesto dell'Ucraina è tanto diverso dal nostro e appunto come succedeva da noi negli anni '60 le donne hanno figli molto giovani non in età così tarda come sta succedendo da noi e hanno anche molti più figli di noi. Tante realtà diverse, anche piccole comunità di donne che hanno affrontato la separazione dai loro compagni, dai loro figli maggiori che magari sono nell'esercito, creando queste microcomunità e stanno cercando ospitalità insieme. Legami che evidentemente vanno rispettati.

Continuità e stabilità degli affetti

Paola negli orientamenti operativi pubblicati sul suo sito scrive che ci sono dei principi fondamentali da rispettare: il principio della continuità e stabilità degli affetti, il principio della personalizzazione, il principio della partecipazione, il principio del rispetto dell'identità, il principio dell arricchimento delle esperienze. Ogni bambino ha diritto all'educazione e alla salute. Ha spiegato che tanti anni fa lei e Marco Ius avevano pubblicato «Educazione, pentolini e resilienza», uno studio sulla resilienza realizzato studiando i bambini separati violentemente dalle loro famiglie ebree durante la Seconda Guerra Mondiale, quando i genitori venivano deportati e per non far portare via anche i bambini li hanno abbandonati nelle mani di qualcuno, in alcuni casi in sicurezza, in alcuni casi nelle mani di una prostituta o di sconosciuti; non sempre mani sicure, che poi si sono rivelate buone mani, si sono rivelati nella maggior parte dei casi dei grandissimi tutori di resilienza. Questi bambini li hanno intervistati una volta diventati anziani proprio per capire che cosa aveva funzionato come fattore di protezione, cosa aveva permesso questo percorso resiliente dopo una lacerazione così grande di tutti i legami. Una delle cose che hanno detto, se una cosa del genere dovesse ricapitare come oggi sta avvenendo, hanno suggerito di non cambiare il nome dei bambini, di chiamarli sempre con il loro nome cioè il rispetto dell'identità della persona, una cosa di cui abbiamo bisogno profondissimo come esseri umani. Il nome è la prima cosa che garantisce l'identità alla persona. I bambini ebrei per essere nascosti dovevano cambiare il nome e questo è stata una sofferenza enorme che loro ricordavano e ricordano ancora decenni e decenni dopo. Chiamare i bambini per nome significa garantire questa attenzione personalizzata. Hanna Arendt diceva «l'attenzione è la prima forma di cura» e sei tu e non cambia anche se tutto intorno a te è cambiato.
Occorrre avere rispetto per la loro lingua. Citando ancora l'esempio della scuola di qualche giorno fa, Paola ha ricordato che il preside saggiamente non ha chiesto a queste persone di parlare in inglese, ma ha fatto trovare una mamma ucraina che parlava in ucraino, rispettando la loro esigenza di mantenere la loro lingua.
 

Pedagogia del ritorno e accoglienza partecipata

Raffaele Iosa, un grandissimo ispettore scolastico da poco in pensione, che sta scrivendo in questi giorni per aiutare a riflettere su questi temi, ha già iniziato a parlare di una pedagogia del ritorno, ricordando che è evidente che il popolo ucraino è un popolo nazionalista e che loro non sono venuti qui per restare. Sono qui perché non possono stare a casa loro quindi li dobbiamo accogliere sapendo di accompagnarli poi un giorno verso un ritorno nel loro paese. Una riflessione importante che può aiutarci a garantire a questi bambini l'accoglienza di un contesto personalizzato, evitando l'istituzionalizzazione, e garantire la frequenza a scuola, le due chiavi di volta di questa faccenda. Per un bambino, in particolare per i bambini dai 3 ai 14 anni la scuola è l'ancora di salvezza in un momento in cui la famiglia è spezzata, i legami sono spezzati. La scuola è la campanella al mattino, il vero ritmo della giornata, è mangiare con gli altri, tornare a casa prima di pranzo e avere un impegno mentale il pomeriggio. È poter coltivare una passione e coltivare le passioni si è rivelato come un fattore protettivo di resilienza enorme nelle storie dei bambini separati durante durante la Shoah. C'è una maestra che riesce a vedere il tuo talento e ti permette di coltivarlo in questo momento di grandissima confusione.
È proprio una salvezza, senza enfatizzazione, una scuola che permette ai bambini la partecipazione, come anche l'accoglienza deve essere un'accoglienza partecipata. Costruire un progetto personalizzato, una valutazione della situazione di ogni bambino, costruita non per lui o su di lui, come se fosse un utente, ma con lui, dando voce alla sua esperienza, chiedendogli «di cosa hai bisogno?», «come vorresti vivere?»,»che cosa chiedi agli adulti che sono qui?», «hai capito perché sei qui?», «hai bisogno di informazioni?»,»che cosa non ti è chiaro?», «che cosa vuoi capire?»
Nel corso dello studio sui bambini separati durante la shoah una di queste persone anziane che ripercorreva con loro tutte le tappe della sua traiettoria biografica confidò che per lui la persona più importante, il suo vero e proprio tutore di resilienza, era stata la donna di servizio che, finita la guerra, un mese all'anno d'estate tornava a casa loro e accettava le sue domande. Era l'unica persona a cui poteva chiedere cos'era successo, porre i suoi tanti interrogativi rimasti senza risposta, per cercare di ricostruire una trama narrativa unitaria nella sua storia e questo è quello che dà solidità alla persona nonostante il trauma. La mamma era tornata sfinita, esausta, non era mai riuscita a parlare di quella tragica esperienza, Con lei non poteva parlare perché era traumatizzata a tal punto da non rendere possibile il dialogo. 

La scuola cosa deve fare adesso?

Alcune insegnanti in collegamento hanno chiesto in chat come comportarsi con i ragazzi di 12-14-16 anni che continuano ad arrivare nelle nostre scuole. Devono insegnare loro l'italiano per stabilire un dialogo? Non sempre c'è a disposizione qualcuno che parli ucraino che aiuti a comunicare.
Paola ha suggerito di ricorrere all'informatica; oggi abbiamo a disposizione sugli ipad dei software di traduzione automatica e ci sono i fondi per comprare questi strumenti informatici. L'altra importante risorsa è la comunità ucraina e russa che già da anni vive nel nostro paese, persone che si sono subito messe generosamente a disposizione.
Paola Milani ha aggiunto che essendo vicini alla fine dell'anno scolastico gli insegnanti con le ragazzze e i ragazzi ucraini non devono preoccuparsi di seguire il programma. L'unica preoccupazione è garantirgli una normalità, un'esperienza di quotidianità e di tranquillità nelle loro vite, di iniziare a costruire dei legami sociali e di dare alcune esperienze di apprendimento. Ha fatto l'esempio di un bambino di prima media che ha conosciuto in questi giorni, innamorato del disegno. Segue le ore di disegno di prima, seconda e terza e poi un po' di inglese, un po' di tedesco, un po' di ginnastica, un po' di musica, un po' di italiano e le altre cose le lascia perdere in questi primi giorni. Si costruiscono dei percorsi personalizzati sulla base di quello che i bambini possono fare anche sulla base delle loro conoscenze linguistiche e delle loro possibilità. Se a settembre ci troveremo ancora con questi bambini e probabilmente ne avremo anche di più, allora dovremo ragionare in modo diverso perché non sarà più un accoglienza dei bambini a scuola, sarà un processo di inclusione scolastica da avviare, sarà un'altra fase del lavoro. Per questi due mesi di scuola sarebbe tantissimo riuscire a garantire questa esperienza di normalità che dà il contesto educativo. La forza dell'educazione è quella di vedere le risorse delle persone e metterle in contatto col proprio «daimon», col proprio talento, permettere di svilupparlo e crescere grazie alla relazione con i pari.
Da quello che sta vedendo in questi giorni, ha scoperto che ci sono insegnanti straordinari nel nostro paese, stanno facendo un lavoro straordinario con una scioltezza e una capacità stupefacenti. Esperienze straordinarie che andrebbero raccontate di più invece della narrazione sulla guerra che di solito passa sui media, che parla della guerra con parole di guerra che incutono paura, che veramente accorciano l'orizzonte delle possibilità. Sono quelle storie che Italo Calvino definiva «ciò che inferno non è» a cui bisognerebbe dare maggiore spazio. 

Affido - aggiungere un bambino alla famiglia

Paola ha ammesso di aver imparato tantissimo in questi ultimi anni dalle esperienze di affido familiare che nel nostro paese è ancora poco sviluppato; ha annunciato con gioia che il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali ha appena avviato un tavolo per rilanciare la sfida di aggiornare le linee di indirizzo nazionali sull'affido familiare. Genitori provvisori che si mettono nell'attitudine di custodire i bambini, di proteggerli, consapevoli della provvisorietà del loro ruolo. Ci sono genitori che hanno insegnato tantissimo, soprattutto ci sono alcuni servizi per l'affido che lo hanno usato in maniera veramente innovativa e creativa. Hanno fatto affidi diurni, affidi leggeri, affidi nei fine settimana, affidi combinati con il lavoro dei centri educativi diurni cioè ci hanno insegnato che l'affido può essere davvero uno strumento «tailor made», come direbbero gli inglesi cioè «tagliato e cucito addosso» ad ogni bambino e ad ogni genitore. Può testimoniare di aver visto fiorire delle relazioni straordinarie tra famiglie affidatarie e famiglie di origine. Ha imparato che quando un bambino va in affido non si toglie il bambino alla famiglia di origine, si aggiunge un bambino, come raccontano le storie di «Mirta si fida» e «Mirta si fida. La famiglia Bottoni» di Annamaria Gatti e Elisabetta Basili, pubblicate da «La Meridiana». Libri illustrati straordinari che insegnano proprio questo: «l'affido non è togliere un bambino, è aggiungere una risorsa a una famiglia che per un certo periodo ne ha bisogno». Nei due libri viene raccontata la storia prima dal punto di vista di Mirta, poi da quello della famiglia.
Per concludere ha ricordato il grande potere terapeutico dell'immaginazione, del gioco, della fiaba, soprattutto nella scuola dell'infanzia. I bambini quando giocano partono da «facciamo finta che» e ricreano i loro mondi, ricreano il mondo, ricreano le relazioni dentro quel gioco. La maestra che sa non entrare, invadere il gioco, ma rispettare il gioco e alimentarlo dal di dentro permette al bambino di risignificare la sua esperienza e gli garantisce di poter padroneggiare l'esperienza attraverso la parola che lui mette sull'esperienza cioè da il nome alle cose che accadono, trasformandole attraverso il gioco. I bambini rinascono alla scuola dell'infanzia. Il movimento, l'esperienza di potersi muovere all'aperto, giocare e stare a contatto con l'ambiente, la forza di stare a contatto con la terra, con gli alberi, con l'orto, con tutte le cose che ci sono in questo periodo nelle scuole che stanno facendo delle cose straordinarie. Le mamme ucraine stanno andando nelle scuole a raccontare le fiabe ucraine, un patrimonio culturale di fiabe, di canzoni, di musica eccezionale. I genitori ucraini stanno portando nelle scuole dei saperi, delle esperienze e dei loro cibi. I bambini stanno mangiando cibo «krhin», in questo periodo delle scuole dell'infanzia stanno facendo le merende alle 4 con le torte ucraine.
Quando ci si chiede come parlare della guerra ai bambini a questo giustamente bisogna dedicare un tempo a parte, però noi nella nostra vita quotidiana, ognuno di noi con queste famiglie che ci troviamo vicine a casa, nelle nostre scuole, nei nostri servizi, noi costruiamo relazioni e siamo relazioni e garantiamo a questi bambini un'esperienza di relazioni di pace. Questa è la nostra risposta alla guerra.

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Biografia Paola Milani

foto Paola MIlani
Paola Milani
Ph.D., professore ordinario di Pedagogia Sociale e Pedagogia delle Famiglie, Direttrice del Centro di Pedagogia e Psicologia dell’infanzia dell’Università di Padova. Vincitrice del Premio ITWIIN per le donne inventrici e innovatrici, 2018, per la categoria Capacity Building, con la seguente motivazione: “Per la capacità di sviluppare sinergie nel trasferire un ambito di ricerca dall’Università al territorio a beneficio dei bambini in situazioni di vulnerabilità”. Da giugno 2019 nominata rappresentante italiano nella COST Action della Commissione Europea, The European Family Support Network. Autrice di più di 250 pubblicazioni scientifiche, sia a livello nazionale che internazionale, fra cui Progetto genitori, il primo libro italiano sul parenting support, che è stato nel catalogo Erickson per 25 anni e Educazione e famiglie. Ricerche e nuove pratiche per la genitorialità, Carocci, 2018, che ha vinto il Premio nazionale della Società italiana di pedagogia accademica.
Research leader di LabRIEF, il Laboratorio di Ricerca e Intervento in Educazione Familiare dell’Università di Padova, responsabile scientifico nazionale di P.I.P.P.I., Programma di Intervento Per Prevenire l’Istituzionalizzazione, il più ampio programma finanziato nella storia delle politiche sociali in Italia per il contrasto alla vulnerabilità familiare. P.I.P.P.I. è stato premiato come il progetto migliore nell’area della riduzione delle disuguaglianze (goal 10) al “Premio Pubblica Amministrazione sostenibile – II Edizione. 100 progetti per raggiungere gli obiettivi dell’Agenda 2030”. Inoltre, ha vinto l’European Social Network Award 2019 come primo progetto europeo per la sezione Methods and Tools.

(fonte https://eventi.erickson.it/convegno-minori-2021/speaker-detail/paola-milani)
 
 
bandiera della pace su un balcone










mercoledì 9 marzo 2022

cortometraggio Il nostro nome è Anna


Era da un po' che desideravo scrivere qualcosa del cortometraggio «Il nostro nome è Anna», che sta ricevendo premi e segnalazioni in varie manifestazioni, anche internazionali, ma che ancora non ho avuto modo di visionare. Visto il clima di «guerra» che stiamo vivendo in questi giorni, mi è sembrato opportuno riproporlo, sperando possa essere un momento di riflessione e un segno di speranza.

 

 

locandina Il nostro nome è Anna


Il cortometraggio «Il nostro nome è Anna» è nato da un'idea di Federica Pannocchia, Presidente dell'Associazione di volontariato «Un ponte per Anne Frank», scrittrice e attrice sensibile, di cui ho già parlato su questo blog in occasione di alcune sue precedenti pubblicazioni, uscite con lo pseudonimo «Sofia Domino», da tempo impegnata per far conoscere il dramma della Shoah. Un progetto che si è poi concretizzato dopo l'incontro con il regista Mattia Mura Vannuzzi che ha affidato la parte della protagonista alla giovane attrice Ludovica Nasti, già distintasi qualche anno fa interpretando «Lila» da piccola nella prima serie de «L'amica geniale».

Ludovica  Nasti 01

Nel corto viene raccontata una «Anna Frank moderna che incoraggia a riflettere sul dramma della Shoah, sul valore della memoria oggi, sulle difficoltà dell'adolescenza» La protagonista incontra Anne Frank attraverso la lettura del suo diario, un grido che arriva dal passato per ricordarci l’impegno che ognuno di noi ha nei confronti della società e degli altri, ed entra nel suo mondo, scopre i suoi ideali, i suoi sogni, imparando «ad aiutare chi ha bisogno e a combattere contro ogni forma di discriminazione e indifferenza», a dare voce a tutte le persone che ancora oggi sono escluse ed emarginate.

 

Ludovica Nasti 02



Anna è una ragazza comune, ma affronta la vita in modo speciale, non ha paura di esporsi, di far sentire la sua voce con i mezzi che abbiamo a disposizione oggi per non rimanere in silenzio o in disparte. Ognuno di noi ha il diritto alla libertà e a essere sé stesso, dentro ognuno di noi c’è una Anna Frank che vuol lottare contro il razzismo, il bullismo, l’antisemitismo e la discriminazione, vuol celebrare l’amore

«Il nostro nome è Anna», distribuito da Siberia Distribution, è stato girato interamente in Toscana, tra Pisa, Livorno, Bibbona e Cecina ed è ispirato a vicende vissute in prima persona dagli adolescenti di oggi. «Il nostro nome è Ann«a ha il sostegno di Fondazioni quali la «Casa/Museo di Anna Frank» di Amsterdam e la «Fondazione Anna Frank Fonds« di Basilea, nonché di Testimoni e Sopravvissuti al dramma della Shoah. Il cortometraggio ha una durata di 20 minuti ed è stato presentato il 27 Gennaio 2021, Giornata della Memoria, con la diffusione del trailer ufficiale. È disponibile un progetto educativo per le scuole e per le biblioteche.

Nel corso del 2021 «Il nostro nome è Anna» ha partecipato a vari Festival nazionali e internazionali di rilievo, riscuotendo apprezzamento e premi. Ne enumero alcuni:

- VINCITORE nella categoria «Miglior Cortometraggio» e «Migliore Attrice Protagonista» sezione «DNApoli» «Cortisonanti International Short Film Festival» (www.cortisonanti.it);

- VINCITORE allo «Zero Plus International Film Festival» di Tjumen come «Miglior Cortometraggio» e «Menzione Speciale nella giuria bambini» per l'importanza del tema dell'uguaglianza;

- VINCITORE come «Miglior cortometraggio 2021» per aver valorizzato al meglio i temi della Quarta Edizione della Rassegna Internazionale del Cortometraggio MED-LIMES «Ai Confini del Mediterraneo», Immagini e racconti dai confini del Mediterraneo;

- VINCITORE al «Vesuvius International Film Fest» come «Miglior cortometraggio»;

- VINCITORE al «KIMFF» Film Festival come «Miglior cortometraggio»;

- VINCITORE allo «Screen Power Film Festival» come migliore attrice e miglior regista.

Il cortometraggio è stato inoltre CANDIDATO a
- «Cortisonanti International Short Film Festival»;

- «Social World Film Festival»;

- «Ciak Film Festival»;

- «Safiter Film Festival»;

- «Vesuvius International Film Festival»;

- «Prato Film Festival»;

- «Kino Film Festival», Russia;

- «International Short & Symbolic Art Film Festival», Russia.

«Il nostro nome è Anna» ha avuto una proiezione fuori concorso al «Tiro International Film Festival (Libano);

- proiezione fuori concorso al «International Tour Film Festival.

L'elenco aggiornato dei rronoscimenti è disponibile sul sito della Associazione «Un ponte per Anne Frank» (https://www.unponteperannefrank.org/il-nostro-nome-egrave-anna.html)


CREDITI
Regia: Mattia Mura Vannuzzi
Soggetto: Federica Pannocchia
Sceneggiatura: Cristiana Bertolotti, Mattia Mura Vannuzzi, Federica Pannocchia
Distribuzione: Siberia Distribution
Prodotto da: Studio Emme di Sergio e Sara Martinelli, e Helix Pictures
Organizzazione generale: Gianluca e Marco Bertogna
Manager di produzione: Ottavio Mura
Cast: Ludovica Nasti, Adelmo Togliani, Serena Bilanceri, Claudio Mazzen

Link utili

pagina su sito «Un ponte per Anne Frank»

https://www.unponteperannefrank.org/il-nostro-nome-egrave-anna.html


trailer «Il nostro nome è Anna»

https://www.youtube.com/watch?v=0y933EPX7RI


scheda su «Studio Emme»

https://studioemme.net/produzione/il-nostro-nome-e-anna/


scheda su «Cinema Italiano»

https://www.cinemaitaliano.info/ilnostronomeeanna


articolo su «Sbircia la notizia»

https://www.sbircialanotizia.it/il-nostro-nome-e-anna-una-storia-che-ci-accompagna-nel-viaggio-straordinario-che-e-la-vita/



Anne Frank


Altri mie articoli su Federica Pannocchia
(Sofia Domino) e sua sorella Maricla (Rebecca Domino)

https://foglidiversi.blogspot.com/2014/06/gli-ebook-free-delle-sorelle-domino.html

https://foglidiversi.blogspot.com/2018/01/la-stanza-di-anna.html

https://foglidiversi.blogspot.com/2014/08/come-lacrime-nella-pioggia-sofia-domino.html

https://foglidiversi.blogspot.com/2015/02/la-mia-amica-ebrea-rebecca-domino.html

https://foglidiversi.blogspot.com/2014/11/fino-allultimo-respiro-rebecca-domino.html

https://foglidiversi.blogspot.com/2015/02/associazione-adolescenti-e-cancro.html





giovedì 3 febbraio 2022

Un ricordo di Terre di Confine

 

Chi ha visitato il mio sito fino a qualche giorno fa avrà notato nella barra laterale uno spazio dedicato a  Terre di Confine, rivista di cultura fantastica curata da Massimo De Faveri in collaborazione con Plesio Editore, sempre accurata graficamente e ricca di interessanti contenuti, inserito in segno di stima  e amicizia dopo un breve collaborazione. Da alcuni anni non escono aggiornamenti, anche se l'archivio contiua a essere disponibile online sull'omonimo sito Terre di Confine per cui ho pensato di dedicare una pagina d'accesso anche sul mio blog, in modo che chi non ha avuto modo di sfogliarla allora possa magari riscoprirla, attraverso i link alla versione sfogliabile.
Un modo per mantenere vivo il ricordo di questo valido progetto editoriale in atesa che possa magari un giorno ripartire.

Terre di Confine magazine


mercoledì 19 gennaio 2022

I ribelli del Self-Publishing

Riprendo l'attività di questo blog, che lo scorso anno ho forse un po' trascurato, con la recensione del primo libro letto nel 2022, «I ribelli del self-publishing», di Alessandro De Giorgi e Donato Corvaglia.
Questo post spero sia anche il primo passo per un restilyng progressivo del blog che avverrà nel corso dell'anno.
Ero indeciso se scrivere questa recensione; un po' perché da sempre ho scelto di pubblicizzare principalmente libri di autori poco noti, che non trovano spazio nei consueti canali promozionali, un po' perché non mi sembrava corretto dare la priorità ai fondatori della Youcanprint, con cui ho avuto il piacere di pubblicare i miei libri qualche anno fa, che già possono contare su un ampio bacino di potenziali lettori per farsi conoscere. Dovrebbero essere «gli editori» a promuovere i libri dei loro autori e non viceversa! Ma credo che questo libro meriti di fare un'eccezione!




«I ribelli del self-publishing», testo scritto a quattro mani da Alessandro De Giorgi e Donato Corvaglia, fondatori di Youcanprint, è un libro che mi ha subito incuriosito, a partire da titolo, ma temevo potesse scadere in una vuota autocelebrazione dell'azienda e dei meriti professionali dei fondatori. 

Ascoltando i video che hanno accompagnato l'uscita e  i «bonus» offerti ai primi lettori, ho invece piacevolmente scoperto il taglio diverso che gli autori hanno voluto dare alla narrazione, raccontando in primo luogo la loro amicizia pluriennale, i primi passi per realizzare il loro sogno, le persone che li hanno aiutati a crescere professionalmente, ma anche gli errori commessi, le valutazioni affrettate.

Un quadro che rimette al centro la loro umanità, senza nascondere le fragilità, le liti che hanno caratterizzato alcune fasi della loro esperienza umana e professionale. 

Un cammino che in parte ho condiviso, sia come autore Youcanprint, sia come moderatore del gruppo «Youcaniani e aspiranti autori di Youcanprint» insieme alla fondatrice Silvia Montis (che ha coniato il termine «Youcaniani» per definire coloro che pubblicano con Youcanprint), Roberto Serafini e Pietro Romano. In questi anni ho avuto modo  di dialogare con loro e imparare a conoscerli, seppure a distanza. Poi il gruppo è cresciuto tanto ed è diventato complicato per noi gestirlo e si è deciso di farlo diventare la community ufficiale di Youcanprint.

«I ribelli del self-publishing» non è un manuale tecnico sul self-publishing, come se ne trovano ormai tanti in rete, sia gratuiti che a pagamento, tra cui consiglio il prezioso e ironico «Sopravvivere al Self Publishing» di Allison Wade.

Per comodità dividerò i capitoli del libro in cinque parti in base agli argomenti trattati.

La prima parte affronta in modo semplice le paure degli autori e alcuni falsi miti sul self-publishing, illustrando le differenze rispetto all'EAP (Editoria A Pagamento).

Molti, anche tra gli editori, ancora fanno confusione, forse per non accettare questo fenomeno che sta rivoluzionando il mondo editoriale. Pensano che chi sceglie il self-publishing lo faccia come ultimo ripiego dopo essere stato scartato dalle case editrici tradizionali, che proponga solo libri di scarsa qualità che intasano il mercato editoriale. Affermano che senza la «patente» concessa da una casa editrice tradizionale non si possa diventare scrittori, dimenticando che ci sono stati tanti casi di grandi autori che hanno dovuto attendere anni prima di poter pubblicare le loro opere, oggi riconosciute come capolavori, che editori miopi forse avrebbero frettolosamente cestinato. Gli stessi editori che poi invadono il mercato editoriale con testi di discutibile valore, osannati solo perché scritti da personaggi famosi, o proponendo straordinari «casi editoriali» di cui dopo pochi anni nessuno ha più memoria, per poi concludere con l'ormai abusato slogan «in Italia ci sono più scrittori che lettori», argomento solitamente usato per scoraggiare gli autori emergenti. 

Qualche volta ho pensato anch'io di lasciar perdere, per evitare di intasare il mercato editoriale con i miei libri. Poi mi è bastato fare una passeggiata in una grande libreria, vedere i mucchi di libri di personaggi noti in prossimità delle casse, testi che spesso non offrono un gran contributo per arricchire il nostro patrimonio culturale, per cambiare idea. Se loro possono pubblicare, a volte senza neanche fare la fatica di scrivere il proprio libro, affidandosi ad anonimi ghost-writer, perché solo io dovrei autocensurarmi?

Alessandro e Donato partono da una premessa diversa: pensano che chiunque abbia qualcosa da dire possa scrivere il proprio libro, possa diventare uno scrittore, senza censure o imposizioni, che ogni libro sia «un atto di rivoluzione che contribuisce al miglioramento del'umanità». L'unico libro che non lascia ricordi, destinato ad essere spazzato via dal tempo è secondo loro «il libro mai scritto» o peggio «il libro scritto, ma mai pubblicato.

La Youcanprint aiuta a realizzare questo sogno, fornendo gli strumenti tecnologici e il supporto umano per aiutare autrici e autori a esprimere il proprio potenziale, a «coltivare la propria passione» e proporsi sul mercato editoriale con il proprio libro. Poi saranno i lettori a premiare i libri e le autrici e gli autori più meritevoli.

Uno dei punti di forza della nuova editoria è la «stampa su richiesta» (print on demand) che permette di pubblicare anche piccole tirature, evitando di intasare i magazzini delle librerie con migliaia di testi destinati poi tristemente al macero o se va bene al recupero nelle librerie «remainder» o sulle bancarelle dei libri usati. Pubblicare il proprio libro senza investire cifre esorbitanti, senza dover stampare 500/1000 copie per ammortizzare i costi di stampa, è sicuramente stato un vantaggio, anche in termini di spazio utilizzato, che  ha rivoluzionato il mondo editoriale.

Nella seconda parte del libro Alessandro e Donato raccontano la loro storia, arricchita da foto «d'epoca» partendo dalla loro amicizia nata a Specchia e cresciuta sui banchi di scuola a Tricase, passando per il primo giornalino locale «Giù dal palco», in cui già si notano alcuni temi che poi diventeranno l'anima di Youcanprint. Poi la prima iniziativa imprenditoriale nel 2007, ancora giovanissimi, riunendo un gruppo di validi collaboratori in una start up chiamata «Minuti d'arco».

Gli autori non nascondono anche i dubbi e gli errori commessi, la consapevolezza che la loro strada doveva essere un'altra e la coraggiosa (o folle) decisione di uscire dalla società, accollandosi un «debito» oneroso per ripartire in due con la «Borè», che raggruppava i marchi «Libellula» e «Youcanprint», puntando tutto sul «print on demand» che quegli anni cominciava a muovere i primi passi. All'epoca forse c'era solo «Lulu», nata in Canada nel 2002, che offriva un servizio automatico di self-publishing, stampando all'estero, con costi di spedizione per l'Italia piuttosto alti.

Quando ho cominciato a interessarmi di self-publishing ho esplorato anche il sito di  «Lulu», ma avevo tanti dubbi e c'era qualcosa che non mi convinceva pienamente. 

In seguito qualcuno mi ha consigliato la «Youcanprint», che inizialmente pensavo fosse un'altra azienda straniera; poi ho scoperto piacevolmente che si trattava di un'azienda italiana, pugliese, nata a Tricase, nella mia regione, che forniva qualcosa in più, la possibilità di dialogare con delle persone in carne e ossa per chiarire i propri dubbi, sia per telefono o via mail, sia attraverso un prezioso servizio chat all'interno del loro sito.

In quegli anni il colosso Amazon sbarcava in Italia, occupando quella che inizialmente era una nicchia di mercato in crescita per la Youcanprint e altre aziende italiane entrate nel frattempo in questo settore.

Gli autori ricordano quella fase come un periodo di grandi innovazioni, di un ampliamento del team a cui non corrispondeva una chiarezza di idee a livello progettuale, preoccupati solo di difendersi dalla concorrenza ed espandersi. Alessandro e Donato offrono una narrazione onesta, senza cadere nell'auto celebrazione, ammettendo i molti errori compiuti in questi tredici anni, come la tendenza ad acquisire altre realtà editoriali, in un'ottica di diversificazione, senza avere un'idea chiara di come valorizzarle.

Nel 2018 la scelta dolorosa, condivisa con i dipendenti, di tornare alle origini, chiudendo i marchi satellite e incentrando tutto su Youcanprint, valorizzando il rapporto umano con i clienti che era sempre stato la carta in più offerta dall'azienda.

Un rapporto cresciuto anche grazie all'interazione con quella che è adesso la «community ufficiale» di Youcanprint, un gruppo di autori che con lo strano nome di «Youcaniani» si sono autorganizzati e autotassati per partecipare alle principali manifestazioni librarie italiane: «Padova Expo Libri 2016», «Firenze Libro Aperto 2017», «Milano Tempo di Libri 2017», «Torino Salone del Libro 2017».«Taormina Taobook 2017», «Milano Tempo di Libri 2018» e «Torino Salone del Libro 2018». Un capitolo della storia della Youcanprint che forse andava aggiunto a questo libro. Ma forse sono di parte, avendo partecipato come moderatore del gruppo «Youcaniani…» alle fasi organizzative e a distanza come autore a questa fase creativa, forse irripetibile, di cui bisogna ringraziare tutti coloro che hanno scelto di aderire con i loro libri e in particolare chi ha montato e presidiato fisicamente gli stand, cercando di promuovere tutti noi e il marchio Youcanprint.

Nella narrazione della storia dell'azienda e del loro rapporto a volte anche burrascoso le voci di Alessandro e Donato si alternano, a volte si sovrappongono in una narrazione corale, che rende complicato a  volte capire chi stia parlando in quel momento.

La terza parte del libro offre una serie di semplici «consigli motivazionali», che loro definiscono «nove lezioni apprese sulla nostra pelle», che partono dall'idea che non sempre l'errore sia una cosa sbagliata, spesso sbagliare strada può essere un modo per capire meglio dove si voleva andare davvero.

L'ultima parte «Dicono di noi» racchiude alcune opinioni di autrici e autori Youcanprint, raccolte tra le tante espresse all'interno del gruppo «Youcanprint - Official Community», dal 19 settembre 2020 community ufficiale di Youcanprint, con circa 7000 iscritti. Segue la pagina dei ringraziamenti che gli autori hanno voluto dedicare ai familiari, amici e allo staff Youcanprint.




 

  

  • Titolo: I ribelli del Self-Publishing
  • Autore: Alessandro De Giorgi - Donato Corvaglia
  • Data di uscita: 2021
  • Editore: Youcanprint
  • ISBN: 9791220376587  
  • ASIN-
  • Scheda cartaceoYoucanprint 
  • Pagine: 136

Sinossi

Vogliamo rendere il mondo un posto migliore, un libro alla volta! Youcanprint è la nostra passione per i libri trasformata in impresa, la prima piattaforma italiana che offre davvero a tutti la possibilità di realizzare il proprio sogno di pubblicare un libro. Ma prima di tutto siamo partiti da zero, con niente. In questo libro abbiamo raccontato i nostri fallimenti, il nostro amore, le nostre rinunce, il nostro coraggio, la nostra ribellione. Si, perché stiamo rivoluzionando il mondo dell'editoria e siamo dei ribelli.

 


Recensione pubblicata anche su Braviautori il 19/01/2022
https://www.braviautori.it/book_i-ribelli-del-self-publshng.html

martedì 20 luglio 2021

Tokio 1940 - Una occasione mancata

Nel 2012 sul sito Braviautori, che allora frequentavo più assiduamente, in coincidenza delle Olimpiadi venne organizzato un torneo a squadre denominato «Olimpiadi BraviAutori». In giuria c'erano Massimo Baglione, Angela Di Salvo e Alessandro Napolitano.
Io facevo parte della squdra «The Isle» insieme a Maria Adele Popolo, Windrose e il compianto Andrea Leonelli e per una delle prove, «Raccontare la cerimonia di apertura di una Olimpiade mai avvenuta», scrissi questo «articolo/racconto" in cui immaginavo le Olimpiadi di Tokio 1940, saltate per colpa della Seconda Guerra Mondiale.

Il 23 luglio 2021, Covid permettendo, dovrebbero partire le Olimpiadi di Tokio 2020 e mi è sembrato carino riprendere quel testo, in verità non molto apprezzato dala giuria, ma all'epoca finito tra i primi 10 nella classifica dei testi giornalistici del sito (https://www.braviautori.it/tokyo-1940-l-occasione-mancata.html).

Tokyo 1940: l'occasione mancata

In una calda giornata di metà settembre con una variopinta e spettacolare cerimonia sono stati aperti ufficialmente i Giochi di Tokyo 1940, XII edizione delle Olimpiadi moderne e prime disputate in territorio asiatico. Nell'impressionante maestosità del diamante verde dello Stadio Koshien a Nishinomiya, campo di baseball costruito nel 1924 e capace di contenere oltre 50mila spettatori, si sono ritrovate insieme per un giorno tutte le più alte personalità politiche, sportive e culturali del pianeta: dalla rappresentativa del Terzo Reich capeggiata da Goebbels e dominatrice dell'ultima edizione dei giochi ai rappresentanti del governo fascista italiano con Galeazzo Ciano, dal primo ministro inglese Churchill al collega francese Pétain e al segretario di stato americano Hull. Uniche grandi assenti Polonia e Cina a causa del conflitto armato in corso.
Nonostante un notevole lavoro diplomatico non tutti i paesi belligeranti hanno deciso di aderire alla tregua olimpica e consentire ai propri atleti di partecipare ai Giochi.
Notevole lo sforzo sostenuto dal Giappone che ha impegnato milioni di yen e una organizzazione di migliaia di persone per questa manifestazione che punta a mostrare al mondo intero la potenza dell'Impero del Sol Levante, cercando di superare i fasti di Berlino 1936.
In tutte le principali strade dell'isola sono esposte migliaia di bandiere olimpiche, con i tradizionali cinque cerchi colorati, simbolo dell'unione dei cinque continenti e della fratellanza tra i popoli. Tante anche le bandiere giapponesi, con il tradizionale sole nascente, ripreso anche nell'emblema olimpico.
Anche quest'anno, come nell'edizione tedesca, sono state piazzate decine di telecamere ai bordi dello stadio e degli altri campi di gara per riprendere l'evento. Una scelta ambiziosa, considerando che il sistema televisivo giapponese è nato solo lo scorso anno e il numero di televisori presenti nel paese è ancora piuttosto basso; dettata più che altro da ragioni politiche e propagandistiche e, soprattutto, dalla volontà di non mostrarsi inferiori all'alleato tedesco.
Spettacolare la sfilata folkloristica e degli atleti delle 47 nazioni in gara, un numero inaspettato fino a pochi mesi fa, a causa delle vicende belliche che hanno investito il continente europeo e, seppur in modo meno accentuato l'oriente e l'area del pacifico.
Come tradizione dall'avvio delle Olimpiadi moderne nel 1896 il primo paese a sfilare è stata la Grecia, culla dello spirito olimpico, seguita da tutte le altre nazioni, in rigoroso ordine alfabetico.
Un enorme serpente multicolore di uomini e donne di ogni razza, preceduti dai rispettivi portabandiera, ha lentamente percorso l'intero perimetro interno dello stadio, tra gli applausi del pubblico festante.
Quasi quattromila gli atleti in gara, famosi e sconosciuti, di nazioni grandi e piccole; per un giorno hanno sfilato insieme, dimenticando le rivalità politiche e i conflitti bellici per confrontarsi solo sul piano sportivo.
Tra i protagonisti più attesi lo squadrone tedesco, dominatore dei giochi di Berlino con 33 ori, capitanato dal campione di salto in lungo Luz Long.

Un grande atleta in cerca di riscatto, dopo aver perso l'oro olimpico nel salto in lungo dietro a un immenso Jesse Owens, vera stella di Berlino con i suoi quattro ori olimpici e oggi alfiere della agguerrita squadra statunitense. Tutti i riflettori presto saranno puntati sulla nuova sfida tra Long e Owen, con il ragazzo nero di Cleveland, oggi favorito, dopo un'impresa sportiva eccezionale e un record che certamente resterà a lungo imbattuto.
Grandi le aspettative anche nei riguardi degli altri paesi che hanno ben figurato nella scorsa edizione, guadagnando più di una medaglia d'oro: Stati Uniti (24), Ungheria (10), Finlandia e Francia (7), Svezia, Giappone e Olanda (6), Gran Bretagna e Austria (4), Cecoslovacchia (3), Argentina, Estonia ed Egitto (2).
La squadra azzurra, capitanata da Trebisonda "Ondina" Valla, prima donna italiana a vincere un oro olimpico, si presenta con un gruppo agguerrito.
Giulio Gaudini, Edoardo Mangiarotti e Franco Riccardi gli atleti di punta della scherma con all'attivo due ori individuali e due a squadre.
La nazionale di calcio di Vittorio Pozzo, Campione Olimpica a Berlino 1936 e Campione del Mondo nel '34 e '38, che punta a realizzare una doppietta storica. Ulderico Sergo, oro a Berlino nella boxe — pesi gallo e Romeo Neri, oro nella ginnastica nel 1932, tornato in squadra dopo un brutto infortunio. E poi le squadre di vela, atletica, canottaggio, ciclismo e tanti altri.
Ultimo per cerimoniale è stato il Giappone in quanto squadra del paese organizzatore, accolto da una vera e propria ovazione sotto lo sguardo compiaciuto dell'imperatore Hirohito, circondato dalla famiglia imperiale e dai più alti dignitari. In onore degli atleti e delle personalità presenti, al termine della sfilata alcune giovani, vestite con costumi bianchi e rossi sono entrate lentamente sul campo di gioco, spargendo petali di rosa.
Giunte al centro del diamante si sono posizionate in modo da comporre la bandiera nazionale, applaudita con grande calore dal solitamente compassato pubblico giapponese.
Ha quindi preso la parola il primo ministro Fumimaro Konoe, che ha prima accolto gli atleti con un breve discorso di benvenuto e poi recitato la formula per l'apertura ufficiale dei giochi.
Finalmente ha fatto il suo ingresso la torcia olimpica, accesa qualche mese fa a Olimpia in Grecia, patria delle Olimpiadi; la fiaccola era passata di mano in mano da atleti e gente comune di varie nazioni, percorrendo mezza europa in una estenuante e suggestiva staffetta prima di essere trasportata via nave fino in Giappone.
Nel porto di Yokohama l'atleta tedesco Fritz Schilgen, ultimo tedoforo a Berlino 1936, aveva consegnato la torcia ai colleghi giapponesi che avevano continuato la corsa per le principali città del paese del Sol Levante. L'ultimo tedoforo, Sohn Kee-chung, trionfatore nella gara della maratona a Berlino, è salito da solo verso il grande braciere per accendere la fiamma olimpica, che arderà per tutta la durata della competizione sportiva, come nell'antico rituale greco.
Al termine del discorso sono stati liberati alcuni colombi, simbolo di pace e consegnati a tutti i portabandiera degli uccelli della pace origami, veri capolavori realizzati con fogli di carta piegata in maniera sapiente.
In rappresentanza dei componenti di tutte le squadre in gara, un atleta della nazionale svedese ha infine pronunciato il giuramento olimpico, una formula ispirata all'antico rituale greco, in rappresentanza di tutte le squadre.
Dopo questo suggestivo momento, è stato avviato il programma artistico, tenuto rigorosamente segreto fino all'ultimo istante.
Il momento è stato aperto da migliaia di figuranti vestiti con il caratteristico kimono che hanno fatto ingresso all'interno del campo di gioco, posizionandosi attorno alla bandiera, e si sono esibiti in danze e canti gagaku, accompagnate da strumenti tradizionali.
Un ritmo lento, scandito dai tamburi taiko e dai suonatori di biwa e strumenti a fiato ha incantato il pubblico giapponese e i numerosi spettatori stranieri, portandoli in un mondo di sogno. Perfetto il sincronismo dei danzatori, come mossi da un unico filo.
A seguire hanno fatto ingresso centinaia di allievi delle scuole di arti marziali giapponesi, che, sotto gli occhi attenti dei loro istruttori, si sono esibiti in spettacolari dimostrazioni dei kata, simulazioni incruente derivate dalle antiche tecniche di lotta giapponesi.
Per concludere i figuranti hanno composto dei suggestivi quadri animati, ripercorrendo velocemente la storia dell'impero nipponico, dalle origini, al periodo dei samurai e degli shogun fino ad arrivare al periodo Sho-wa dell'Imperatore Hirohito. Spettacolari, ma forse poco comprensibili da un pubblico non giapponese, anche per la velocità del susseguirsi delle rappresentazioni sceniche.
Una macchina organizzativa perfetta, frutto di una lunga preparazione e della proverbiale dedizione del popolo giapponese, che ha positivamente impressionato tutte le delegazioni straniere.
Non è difficile immaginare che questa olimpiade passerà alla storia come un evento irripetibile.

Nota
Le Olimpiadi che si sarebbero dovute svolgere a Tokyo nel 1940 e che non videro mai la luce del sole a causa della guerra mondiale che contrapponeva una moltitudine di nazioni europee e orientali sarebbero sicuramente state uno dei più grandi eventi sportivi del secolo appena concluso. 
Non sapremo mai cosa sarebbe avvenuto, quali sarebbe stati i risultati storici che l'avrebbero contraddistinta, nè quali nuovi campioni avrebbe forgiato; ci piace immaginare che sarebbe stata una grande competizione, un evento capace di unire genti e culture, dove la battaglia aveva come unico scopo il potersi cingere di una medaglia, in contrapposizione a ben più cruente battaglie che da lì a poco avrebbero fatto scorrere fiumi di sangue in ogni angolo del pianeta, una follia che solo il genere umano poteva partorire.












mercoledì 2 giugno 2021

40 anni senza Rino


Oggi sono 40 anni che Rino Gaetano non c'è più e in tanti stanno omaggiando il geniale artista, scomparso in un terribile incidente stradale il 2 giugno 1981 a soli 31 anni, con articoli e iniziative varie. Difficile dire qualcosa di nuovo, che già non sia stato scritto.
Avevo 12 anni quando Rino ci ha lasciati, conoscevo le sue canzoni più note: "Gianna", "Nuntereggae più", "Berta filava", "Nel letto di Lucia", "Spendi Spandi effendi" e poche altre. La mia preferita era "E io ci sto", insieme ad "Ahi Maria" ed "E cantava le canzoni". 
Allora "Il cielo è sempre più blu" la trovavo troppo lunga, un po' noiosa, non a caso poi l'hanno divisa in due parti.
Dopo la sua morte per parecchi anni non si è più parlato di lui, le radio ignoravano i suoi brani. Nei negozi di dischi era difficile trovare i suoi dischi. Anche tra i miei amici solo in pochi ricordavano Rino Gaetano, i più conoscevano solo "Gianna", i più giovani neanche quella.
Sembrava che Rino fosse destinato a finire nel dimenticatoio, come tanti artisti scomparsi di cui oggi si parla poco, penso a Ivan Graziani, Pierangelo Bertoli e recentemente Mango.
Solo dopo una decina d'anni ho potuto finalmente ascoltare la prima raccolta, intitolata "Gianna e le altre" che conteneva i brani più noti, più gli inediti "Solo con io" e "Le beatitudini".
Rino cantava «penso che fra vent'anni finiranno i miei affanni» e solo a vent'anni dalla sua morte è cominciata la riscoperta dei suoi brani, anche grazie all'uscita di "La storia", un doppio cd che in 24 tracce racchiudeva i brani più popolari tratti dai suoi album.
Qualche anno fa è uscito in edicola il cofanetto "Parola di Rino", forse la raccolta più completa vista finora, che raccoglie in 10 cd i sei album originali, una registrazione tratta dal concerto del 1977 con i Crash a San Cassiano di Lecce e varie demo e inediti. La raccolta si conclude con il CD "Dalla parte di Rino", che raccoglie gli omaggi di altri artisti che hanno voluto cimentarsi con le sue canzoni ironiche e graffianti, ma dense di significato.

A fine mese uscirà la nuova raccolta intitolata "Istantanee e tabù" che ripropone le sue canzoni più rappresentative e materiali inediti come brano «Io con lei».

Un omaggio doveroso per questa ricorrenza, che ha ricevuto anche qualche critica perché considerata l'ennesima operazione commerciale che non propone niente di nuovo sull'artista. Dopo tanti anni, a parte qualche nastro ormai corroso dal tempo credo sia difficile poter proporre qualcosa di nuovo rispetto alle varie antologie che raccolgono i sei album usciti tra il 1974 e il 1980 e altri materiali inediti, ma credo sia importante far conoscere Rino anche alle nuove generazioni, riproporre tutta la sua discografia, non solo i brani più conosciuti.

Iniziative 2021


#rinogaetanoday2021
Il 2 giugno sarà trasmesso in streaming il concerto della «Rino Gaetano Band", organizzato da Anna e Alessandro Gaetano per la XI edizione del «Rino Gaetano day», trasmesso in streaming a partire dalle 18.30 circa sulla pagina Facebook della «Rino Gaetano Band», sul loro canale YouTube e on air su Radio Italia Anni 60 Roma FM 100.5.


Raccontami di Rino!

Il 2 giugno presso il Centro Sociale Brancaleone di Roma Carolina e Pierluigi Germini presenteranno il loro libro Raccontami di Rino!". Modera Nicola Sisto. 
A seguire concerto dei "Ciao Rino", storica coverband che da anni porta in tutta Italia le sue canzoni.

Istantanee e Tabù
Uscirà il 25 giugno la raccolta «Istantanee e Tabù" (Sony Music), realizzata in collaborazione con Anna ed Alessandro Gaetano per celebrare il quarantennale della scomparsa dell'artista calabrese. 
Sarà disponibile nei formati quadruplo LP nero 180 gr in edizione limitata numerata (con 40 brani), doppio LP in pasta colorata (con 20 brani) e doppio CD (con 37 brani), tutti arricchiti da un libretto curato da Paolo Maiorino. La copertina è stata realizzata da Nazario Graziano.

Discografia

Album in studio
1974 – Ingresso libero (It ZSLT 70024)
1976 – Mio fratello è figlio unico (It ZSLT 70029)
1977 – Aida (It ZPLT 34016)
1978 – Nuntereggae più (It ZPLT 34037)
1979 – Resta vile maschio, dove vai? (RCA Italiana PL 31449)
1980 – E io ci sto (RCA Italiana PL 31539)
 
 

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